Romagna Mia

Cari amici Utopici, questo caffè sospeso lo berremo a Sanremo anche se il cuore parlerà romagnolo. Al Festival questa sera si celebreranno i 70 anni di Romagna Mia, canzone che porto nel cuore perché mio nonno Augusto l”ascoltava sempre, spesso dalla sua radiolina nera che per lui era preziosissima.

Anni fa ho scritto questo racconto per immaginare l’incontro tra Casadei e mio nonno ….

Romagna mia

A mio nonno

L’ultimo tremolio e lo sbuffo del camion segnavano l’arrivo dell’ora di cena. Il caldo polveroso della cabina era tutto colato sulla schiena provata dalle ore di guida solitaria. Un cigolio e la portiera chiusa. Ecco lì il fontanile del cortile. Conosceva bene quella trattoria e pensò: “Perché rischiare quando si sa dove trovare un buon piatto di pasta e un prezzo modico?”. 

Con una mano spingeva lo stantuffo della pompa e con l’altra si passava l’acqua sul viso, sulla nuca, sulla testa arrossata, poi beveva un po’ di quel fresco e buono che ristorava la gola. Si asciugò e infilò la camicia tenuta appesa per non sgualcirla. Non si può andare a tavola sporchi e sudati!

“Mo vè ha picchiato forte il sole oggi. Senta non è che mi spinge la pompa che mi rinfresco un po’?” Si girò e vide quel signore dal vestito distinto e la faccia sorridente. Non sembrava certo uno dei camionisti che erano soliti fermarsi in quella trattoria. Portava dei pantaloni scuri e una camicia bianca con le maniche rabboccate e si asciugava il viso addobbato da baffetti e radi capelli ordinatamente imbrillantinati. Sorrise con due labbra sottili e uno sguardo diretto.

* * *

“Ma eccoti qua Coca! Era un po’ che non passavi da queste parti. Adesso ti trovo un posto per sederti, è che siete arrivati tutti adesso, sembra che vi siete dati l’appuntamento”. Lui aspettò lì all’ingresso, tra il bancone del bar e la porta spalancata, mascherata con una tendina di perline. Il locale era semplice, un piccolo bar e una grande sala dalla quale proveniva un gran vociare, ma il cibo era sincero e dopo tanti chilometri e ore di guida alle spalle un bel piatto di pasta era l’unica cosa che poteva rimetterti al mondo.

“Ma sai che oggi è un bel disastro? Senti, ti offendi mica se ti metto a tavola con quel bel signore. Ci si è rotta la macchina e Berto gli sta sistemando il motore”

“Non sta a preocuparte, me basta che te me portito un piatto di tui che go na fame da magnare anche le gambe de la tola”, rispose Augusto con il suo accento veneto.

Si sedette al tavolo e versò un bicchiere di vino rosso, poi si asciugò le labbra sottili con il tovagliolo, sistemò le posate e in men che non si dica un bel piatto di tagliatelle al ragù fumava davanti alla sua bocca. La Nives faceva una pasta che era una bomba, quasi come quella di sua moglie. Quasi certo, che come le faceva la Bianca le tagliatelle non le faceva nessuno ! E già la vedeva comparire davanti ai suoi occhi, mentre tirava la pasta con quel mattarello enorme, con i capelli neri e morbidi, fermati dietro le orecchie con due pettinini e i butini lì intorno. Ogni viaggio era la stessa danza di malinconica fatica. Il padrone sapeva che lui non si addormentava sulla strada e così gli affidava un viaggio dietro l’altro. Alle volte andava fino in meridione anche due volte alla settimana. Viaggiava instancabile per ore, scaricava le botti e poi ripartiva con la voglia di tornare a casa in fretta. 

“Eccoci qua, mi dispiace se la disturbo. Piacere mi chiamo Secondo”.

“Ben ben se senta, mi me ciamo Augusto”.  E continuò a mangiare la sua pasta fumante.

L’altro iniziò a chiaccherare, raccontò di quel motore che non ne voleva sapere di ripartire, che era stato fortunato perché la macchina si era fermata poco distante da lì e aveva trovato il fantomatico Berto che pareva fosse il mago del motore. Che era lì di passaggio, doveva raggiungere la riviera che lo aspettavano per una serata e sperava proprio di arrivare in anticipo e potersi riposare, ma che probabilmente non ce l’avrebbe fatta con la macchina in quelle condizioni. 

Augusto ascoltava più che parlare, la sua testa non era seduta a quel tavolo, pensava che avrebbe preferito stare tranquillo, che voleva riposare, che voleva tornare presto al suo paese, che non vedeva l’ora di fare una bella dormita nel suo letto, il giorno dopo sarebbe stata festa e sarebbe stato un po’ tranquillo. 

Secondo non taceva, parlava e gesticolava con quelle mani bianche e morbide, Augusto le aveva notate subito. Le sue mani erano forti e segnate dai calli, scottate sulle nocche per il sole preso mentre guidava. Aveva perso una falange del dito medio a cinque anni, facendo il facchino alla stazione del paese per portare a casa magari un chilo di zucchero. 

“Ma te non mi dici niente? Com’è che ti sei fermato qua?”

“ ’sa voto che te diga? Ho fatto la tratta fino a Napoli, adesso sto tornando  a casa e noi camionisti ci veniamo sempre qua quando pasemo in zona. I xè brava zente, il Berto ci sistema le gomme intanto che mangiamo e a Nives  sta in cucina.”

“Ma quanti giorni l’è che sei in giro?” 

“Tre giorni”

“Hai figli?”

“Cinque”

“Cinque? Ma quanti anni hai?”

“I prossimi son trenta”

“Un brindisi ai cinque figli”, disse Secondo e poi fece una rarissima pausa di silenzio. 

“Ma com’è che fai questo mestiere?”

“Ma insomma, avevo fatto la patente e poi la guerra. I tedeschi mi hanno messo sui loro camion e io avevo i figli a cui pensare…” 

“Già la guerra, ne abbiamo visto di momentacci. A noi ogni tanto i tedeschi ci caricavano sui camion e ci facevano suonare per la truppa, per gli ufficiali…”.

“Sito un cantante?”

“Un musicista! Ho un’orchestra suoniamo in tutta Italia, mai sentito parlare dell’orchestra Casadei?” 

“Ma mi  viaggio tanto e non go a radio.”

Il ricordo della guerra aveva sciolto gli imbarazzi e le ritrosie. In fondo il commensale era gentile e il suo accento romagnolo lo rendeva oltremodo simpatico. Augusto si mise a parlare con lui della musica e gli disse che amava suonare la fisarmonica, l’altro gli rispose che poteva provare a suonare qualcosa con la sua orchestra, ma Augusto, che gli amici chiamavano Nino, non era fatto per la vita del musicista. Era nato per lavorare e per essere padre, lui che il padre lo aveva perso da bambino. Era l’uomo di casa, lo era anche a cinque anni, figuriamoci a trenta. Disse a Secondo che pensava sempre a sua madre, anche se adesso lei era risposata con un eroe di guerra  e non se la passava male e alla sua Bianca che era al paese a curare cinque figli, quattro femmine ed un maschio. Pensava sempre alla sua casa, piccola e raggomitolata accanto alle altre, che in paese chiamavano “casette”.

Secondo ascoltava attento. Pensava che la storia di Nino, non era poi tanto diversa dalla sua che pellegrinava per l’Italia per portare in giro il suo spettacolo. Poi pensò a quanti lì nella sala, condividevano lo stesso destino. In fin dei conti erano anni di un’Italia in movimento, gente che dal sud migrava al nord o dalle campagne del Veneto, dal Polesine per recarsi nelle grandi città industiose, dove si millantavano posti di lavoro per tutti. Quanti stavano sentendo la nostalgia per la propria casa? Legnago o Forlì, il Veneto o la Romagna, legati da uno stesso destino. 

Nino doveva ripartire e Secondo lo salutò frugandosi nel borsello. Ne tirò fuori una radiolina nera, uno scatolotto con una manopola e un’antenna. 

“Ma portati via questa qua che te la senti intanto che guidi, così ti fa compagnia e magari qualche volta mi senti suonare”

Nino non voleva accettare, timido e abituato a guadagnarsi da solo le cose. L’altro insistette.

Si tolse la camicia, la riappese al gancio dietro il sedile, mise in moto e partì commosso per il regalo appena ricevuto, una radio!

Secondo restò ancora un attimo seduto al tavolo, prese carta e penna e iniziò a scrivere.

***

Era un tramonto estivo. I bambini scalzi correvano per i campi lì intorno, ogni tanto tornavano alla pompa davanti a casa e facevano a turno a bere quell’acqua deliziosa. Nino era seduto fuori dalla porta. Bianca era al suo fianco seduta sul gradino a godersi un po’ di riposo. Era domenica, aveva preparato la torta margherita e ne stava mangiando una fettina rimasta. Nino aveva il viso abbronzato e i suoi occhi così azzurri e penetranti,  si perdevano in un ricordo lontano mentre, con la radio appoggiata all’orecchio, sentiva annunciare la nuova canzone dell’orchestra Casadei :

“SENTO LA NOSTALGIA D’UN PASSATO,

OVE LA MAMMA MIA HO LASCIATO

NON TI POTRO’ SCORDAR CASETTA MIA

IN QUESTA NOTTE STELLATA LA MIA SERENATA IO CANTO PER TE.

……

….
QUANDO TI PENSO, VORREI TORNARE

DALLA MIA BELLA AL CASOLARE…”

Informazioni su Laura
Laura persona, giornalista, speaker e blogger... utopicamente poeta
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