Oggi mi sono trovata a ripensare ai miei anni da pallavolista. Frenate subito gli entusiasmi, ero una schiappa, ma amavo moltissimo quello sport. Forse comprendo solo ora quanto sia stato importante giocare in una squadra di volley (oggi si chiama così).
E’ una dinamica strana quella che si vive in campo, è come se l’area fosse percorsa da linee e numeri: la tua zona, la traiettoria, la linea di confine, la distanza dalla panchina…e la rete. Sembrava altissima. “Ma quando mai riuscirò a saltare così in alto?”, ho pensato mille volte.
Gli allenamenti erano tosti, soprattutto a inizio stagione. “Potenziamento” lo chiamavamo e su e giù dalle tribune, e vai per il percorso di guerra, e dai con gli addominali (ma dove saranno finiti ora?) e palleggia con la palla medica. Poi al muro con una scarica di pallonate che dovevi prendere anche se ti sentivi in un flipper impazzito. La partita a fine allenamento te la dovevi meritare. C’erano giorni in cui la palla nemmeno potevi toccarla, perché non avevi avuto la giusta disciplina. E se non ti piaceva? Giri di corsa extra.
Però, quando finalmente potevi giocare era fantastico. Ognuno con un ruolo, tutti dalla stessa parte della rete, oltre … il territorio da conquistare. Tre passaggi secchi: ricevi, alza, schiaccia. Almeno nella teoria, la pratica era un po’ diversa. Se ricevendo mandavi subito la palla oltre la rete, arrivava l’urlo dalla panchina “la palla si gioca”. Già, dovevi “pulire” la palla con una buona ricezione, così che l’alzatore (che amo chiamare regista) potesse impostare la strategia e giocare d’intesa con l’attacco. Uno sguardo è una veloce, un gesto è una seconda linea, il muro è spiazzato andiamo di primo tempo. Palla a terra, la squadra (la squadra) fa un punto. E poi la frase che ancora e ancora dico nelle mie giornate, a mio figlio, a me stessa: “Si recupera”. Quando la palla era persa (all’epoca si giocava con il cambio palla), dovevi riprenderla subito: giro di cinque con le compagne e la voce della Emy che arrivava isterica da sotto rete: “Si recupera!”
E quella volta che ho visto Zorzi e Lucchetta dal vivo??? Ah lo ricorderò per sempre, così come non dimenticherò quel mondiale del 1990 e la “Generazione di fenomeni” condotta dal coach filosofo Velasco. Un errore dietro l’altro, proprio mentre sei lì a giocarti la finale in un interminabile 4° set durato 40 minuti e il piccolo Maracana ti fischia dietro l’impossibile per alzare, se possibile, ancora di più la tensione e farti sbagliare. Ma la partita è finita solo dopo il fischio, e allora ti ancori all’orgoglio, alla stanchezza, alle braccia che non senti più, ma che ancora devono ricevere, alzare, schiacciare. A vincere è l’orgoglio e il lavoro duro perché Cuba prima o poi dovrà cedere e l’europeo è bello, ma il mondiale è tutto. E’ così che Tofoli serve, Bernardi segna, l’Italia vince e con lei “tutto lo sport italiano”.
Non so che darei per avere una palla bianca in mano, una rete davanti e una squadra con cui giocare. Sarebbe una figura pessima tra tendini rotti, schiena a pezzi e, diciamocelo, l’età che avanza insieme al peso. Ma dentro resta la voglia di scattare, seguire il gioco e saltare. Resta soprattutto la voglia di sentirmi in squadra in questo mondo di battitori liberi. Resta la voglia di finire il percorso di guerra, su e giù dalle tribune perché, diamine, ce la meritiamo questa partita a fine allenamento. E pazienza per le pallonate ricevute mentre siamo spalle al muro: ci lasceranno lividi sui polsi, ma non potranno toglierci la voglia di giocare.
Dedicato a chi ama il gioco di squadra… e a tutti quelli che una squadra non l’hanno mai avuta. Non smettete di cercarla.