Caffè (marocchino) letterario
“… Dobbiamo attraversare spazi e spazi
senza fermare in alcun d’essi il piede,lo spirito universal non vuol legarci
ma su di grado in grado sollevarci.
Appena ci avvezziamo ad una sede
rischiamo d’infiacchire nell’ignavia;
sol chi è disposto a muoversi e partire
vince la consuetudine inceppante…”
H.Hesse
Anche i guerrieri ogni tanto si riposano, figuriamoci i vagabondi metropolitani come me. E’ nata così l’idea di andare a disturbare i cugini elvetici tappeggiando, ovviamente, di caffè sospeso in caffè sospeso. Destinazione Montagnola, sulle tracce del vecchio Hermann.
Il nostro è stato un amore adolescenziale, anche un po’ immaturo. Lui anziano e saggio, io ragazzina gotica alla ricerca del senso della vita. Tra di noi pagine e pagine e domande a mezz’aria, lui scriveva e io le sottolineavo aggiungendo fiumi di annotazioni a margine.
La prima volta che finii di leggere Siddharta mi sentii un drago, ero riuscita a leggere in tempi brevissimi uno dei libri che i miei compagni di classe non avrebbero finito nemmeno in sette vite. Avevo 13 anni. Non ci capii nulla. Lo tenevo in cartella come un breviario, lo consultavo scartabellando le sottolineature, era in un certo senso “il mio libro”, quello che avrei voluto scrivere, che rappresentava buona parte del mio turbamento, ma che non sarei mai stata in grado di narrare così. La prima volta che un libro mi faceva sentire appagata e, come è noto, il primo amore non si scorda mai.
Lo ripresi in mano tre anni dopo e mi sembrò di leggere un libro mai visto prima. Iniziava ad avere un corpo uniforme, non più solo occhi e labbra e braccia sconnesse. Rivedevo le sottolineature della me tredicenne, alcune mi facevano sorridere, altre mi sembravano un monito alla mia immobilità. Tutto era così cambiato nella mia vita, eppure alcune frasi erano ancora così feroci.
Non poteva certo bastare, dovevo riprenderlo in età adulta. Mi ha fatto male percepirlo ridimensionato dal cinismo cresciuto in me, tutto sembrava distante. Quello che mi era parso unico modo per vivere, ora era coperto da un manto polveroso di soffitta, l’ideale era utopia, la vita altrove. Non l’ho più riaperto.
Sono passati gli anni ed è arrivato questo autunno. Io, da sempre in lutto all’arrivo della pessima stagione, ho sentito il bisogno di rifugiarmi nell’uggiosa Svizzera, sperando in una giornata di leggera pioggerellina, per ripercorrere quei sentieri così tante volte acquerellati in parole. Hermann mi ha insegnato molto, compresa la passione per quelle descrizioni un po’ crepuscolari che sapevano di infinito, quella voglia di contemplare la vita un po’ distante, lassù in collina, immersa in un istante terreno che acquista un valore assoluto. Certo, il progresso (già così sottilmente percepibile negli ultimi scritti) ha tagliato buona parte delle viste suggestive: lo sguardo sul monte San Salvatore è attraversato dall’autostrada e il bosco di castagni violato dagli idrovolanti che decollano e atterrano sul lago.
Sulla sua tomba qualche fiore, e molti più sassolini bianchi a testimoniare relazioni mai estinte. Curioso il cimitero S. Abbondio, una piccola élite riposa in un eterno circolo artistico culturale insieme al nostro Nobel. Mi sono scoperta a leggere le date sulle lapidi, calcolando rapidamente per quanti anni posso ancora ragionevolmente pensarmi figlia, sapendo che non ci sarà monumento o frase capace di lenire un dolore incolmabile. Credo abbia comunque più senso un monumento essenziale, come quello scelto da Hermann, accanto alla moglie più amata, un po’ di verde, qualche fiore mollemente adagiato sotto la pioggia e quei sassolini bianchi posti sulla sua tomba, tracce di un sentiero infinito chiamato letteratura.
Sono molte le cose che potrei raccontarvi come il profumo di torba bagnata e legno bruciato che i suoi boschi raccontano, ma preferisco lasciarvi, come mia consuetudine, “in sospeso”. Troverete un caffè ad aspettarvi al “Boccadoro”, chiedete pure un marocchino ora sanno farlo pure lì, dopo la mia visita. Lo so, a volte sono un pessimo avventore ma, perdonatemi, ultimamente i cugini elvetici hanno sottratto seimila imprese al nostro territorio, come minimo possono impegnarsi a fare un marocchino: “Piccole gioie” patriottiche.
Un abbraccio viaggiatori e se volete, andate qui…
pubblicato il 22 ottobre 2013 su Sdiario di Barbara Garlaschelli