Caffè Sospeso pubblicato su #sdiario il 01 novembre 2014
Immaginando l’incontro che mai potrà avvenire
TI REGALERO’ UNA ROSA
di Laura Defendi
Sedeva accanto alla finestra del padiglione. Non si capiva dove finisse il raggio di sole, l’unico che penetrava dai vetri sporchi, e dove iniziasse la luce del suo viso. Era un corpo surreale in una camera che era tutto quello che la realtà riesce a sovra produrre per poi gettarlo. Sulle pareti color marciume, stavano incollati visi storpiati dall’oblio, dalla corrente che inanimava le pericolose sinapsi, dalla vita che era implosa dentro le loro anime.
Eppure lei. Non bella, non sporca, avvolta nel suo cencio che sapeva di dignità e decoro. Stava rannicchiata sulla sedia, accucciata mansueta accanto al termosifone appena tiepido. Il suo viso era curioso e i suoi occhi travalicavano allegri le pareti di quella stanza. Allegri appunto. Di un allegrezza che non poteva esistere in quelle mura, che non doveva esistere in quella vita fatta di abbandono. Era, il suo viso, un affronto alla drammaticità, uno schiaffo al declino, una provocazione dolce e mansueta capace di generare una furente voglia di strapparle di dosso quel brandello di felicità che le era rimasto tra i denti.
E sognava, pareva che sognasse. Nei suoi occhi non erano riflesse le fronde del parco che stava fissando, ma si vedeva la pupilla dilatarsi e restringersi come se davvero vedesse qualcosa, come se davvero riuscisse a distinguere la luce e le ombre di una vita che viveva nel suo sano delirio.
Ed era bella. Non bella in sé, ma bella era la sua aura, quella luce che emanava dal viso rapito, quasi uno scudo, una bolla di sapone profumato che la rendevano immune e protetta dalla devastazione e dalla depravazione che erano i mattoni di quella stanza. Poggiava la testa mollemente sul muro sgretolato alle sue spalle e non distoglieva lo sguardo, non lo distoglieva mai. La sua bocca era socchiusa e avrei giurato, se non fossimo stati nel pieno dell’inferno, di vedere tra le labbra lievemente screpolate, un sorriso dolce. Ma sentivo di essere più folle dei folli a pensare di poter vedere un barlume di piacevolezza il quel luogo, in quel momento.
Mi dissero che non parlava. Che era rinchiusa lì perché rifiutava di relazionarsi, perché aveva dimostrato gravi sintomi di isteria, perché preda di chissà quale visione, smetteva di respirare accasciandosi inerme, come fosse morta… ma morta non era.
Mi decisi, aprii il mio quaderno, misi accuratamente il cappuccio della penna ben posizionato all’estremità opposta dell’inchiostro e fui quasi pronto a chiedere. Eppure lei già mi parlava. In silenzio. Mi raccontava una storia che ancora non capivo, ma non sentivo silenzio nelle nostre parole mute. Seguii il suo sguardo, superai il fiato di freddo che filtrava dal vecchio serramento, superai la polvere tiepida del termosifone, travalicai il vetro opaco ed entrai nel parco.
Sedeva accanto al tiglio sulla panchina del marciapiede, fuori dal padiglione, fuori dalle mura. Era quella l’unica finestra dalla quale si potesse scorgere la vita fuori dallo scempio, dove le persone sedevano o camminavano libere. E lì, con una gamba accavallata sull’altra e dei pantaloni logori, una barba un po’ incolta che contornava un sorriso che vagava tra l’estatico e il malinconico, lì, proprio lì, c’erano le note. A volte stonate, a volte solo un accenno, una prova ecco. Chinava la testa a cercare il suono, a sentirlo nelle vibrazioni più che nell’armonia, stringeva il legno della compagna e lo sentiva nel suo ventre quel suono che nasceva e diventava suo. E non importava della strada lì accanto, non importava della gente che camminava sul marciapiede e che ogni tanto lasciava cadere, tra l’ammirato e il compassionevole, un soldo tintinnante sul selciato. E lui lì, incurante delle pareti d’aria che lo circondavano. E lei lì, incurante delle pareti di grate e muffa che la accoglievano. L’eco disperdeva le note che non giungevano fino alla finestra, ma lei vibrava di quel suono che sentiva nascere, un diapason dell’anima che produceva un’armonia impercettibile all’udito dei più, ma che era vivo e reale in quella tensione d’anime filtrata dall’appartenenza della non appartenenza. Un rito. Una sequenza di gesti mistici ripetuti metodicamente fino al raggiungimento di una forma che descrivesse l’aria, che rendesse reale ed udibile quel dialogo d’intese.
Poi lui tirò fuori dalla sua sacca logora da vagabondo, una bottiglia o forse un termos. Si versò da bere, e stringeva quel bicchiere come per scaldarsi le mani. E bevvero. Lei sentiva sulle labbra, ora umide, l’aroma del caffè che lui beveva nella strada. Lei trascendeva e si incarnava negli aromi, nei sapori del primo mattino che riusciva a sentire, che riusciva a bere dalle labbra di lui ed erano i sapori della sua casa, del latte, del miele, del caffè che accompagnavano i baci del risveglio. Ed era il caldo dei progetti di una giornata che comincia che le regalavano un sorriso, e che le trafiggevano il cuore per quel senso di abbandono che ancora sentiva a tratti, ma che riusciva a smaterializzare nel suo silenzio trasognato. Era dal suo nulla, che era tutto, che attingeva la serenità per disegnare quel sorriso catalizzante che sgretolava ogni mia certezza, e vacillavo sotto il peso di quella vita appesa al Nulla che era il Tutto e che esisteva prepotentemente in quel istante, in quel luogo.
Poi lui si allontanò e lei finalmente mi guardò silenziosa. Il suo viso era sereno e malinconico, indecisa se perdersi nel ricordo contagioso di quella essenza, o se arrendersi alla mia presenza alla sua esistenza, che vedeva lucidamente, che riconosceva e ripudiava, che avrebbe odiato se non fosse stata accanto a quella finestra. Si diede una moviolica occhiata tutta intorno e mi guardò come qualcuno che non ha nulla da aggiungere e, nella mia perfetta razionalità, nella mia non malattia non seppi, come lei, aggiungere altro. Chiusi il mio quaderno, e rimisi il cappuccio alla penna. Restammo in silenzio, uno accanto all’altra, senza toccarci, senza domandarci, guardando fuori dalla stessa finestra dove lei vedeva la vita e io vedevo crollare ogni mia certezza.
La mia patologia è che son rimasto solo
Ora prendete un telescopio… misurate le distanze
E guardate tra me e voi… chi è più pericoloso?
© Laura Defendi