Non troverò un caffè ad aspettarmi da queste parti, ma dovevo venire fin qui. Colpa della memoria, che salva dettagli insignificanti e dimentica ciò che andrebbe ricordato. Ricordo il rispetto e il dolore sul volto di mia nonna quando pronunciava la parola Vajont. Nonna era veneta, ma di pianura, per quanto ne so, Legnago e Longarone erano una traversata quando l’unico mezzo a disposizione era un Moton 50. Nonna era rustica e chiassosa e, come ogni veneto doc, colorava le virgole con un linguaggio irriverente. Eppure portava rispetto a certe persone, a certe storie, portava rispetto al dolore della gente. Vajont, lo diceva a bassa voce, come quando si parla in un cimitero, senza calpestare le lapidi e i fiori.
La memoria, alle volte, si perde nei dettagli. Poi dimentica. Poi torna a parlare, ma con un sapore diverso da quello di cinquant’anni fa, quando si parlava dialetto alto, di confine, di sopravvissuti. Era il dialetto di gente che abitava la montagna, finché non è arrivato il progresso. Forse ha ragione chi racconta che i primi a tradire Erto, sono stati gli ertani stessi. Era gente che aveva fame, che emigrava per lavorare, gli hanno offerto lavoro, soldi e hanno firmato. Poca roba vista con il senno di poi, che già non bastava quando il lago ha preso il posto delle case, ha sommerso chiese e campanili. Hanno sbagliato gli ertani, ma hanno sbagliato pensando di far bene, di firmare un compromesso per i figli (quanti figli in quel cimitero) o, semplicemente, hanno pensato di non avere alternativa. Poi ci sono stati gli altri, quelli che disegnavano in scala la diga, spostavano un monte, sommergevano paesi, allargavano varchi, scavavano gallerie. Loro erano il bene, erano il progresso. “La banca dell’acqua” la chiama Paolini: la vita ammortizzata in rate eterne. Se avessero pensato a questo. C’era il progresso, la sfida, l’uomo contro la montagna, l’uomo che imbriglia la natura e la sottomette. Non bastava governare, bisognava dominare e allora ecco quei 65 metri in più, per avere la gloria, certo, ma anche soldi, tanti soldi, tutti i soldi.
Ma non sono qui per raccontare quello che è successo in fatti, c’è chi può raccontarli meglio di me, sono qui per raccontare i resti. Qui a Casso di resti ce ne sono tanti. In pochi sono tornati, gli altri si sono dispersi. Tanti hanno accettato di spostarsi a Vajont, quello nuovo, un paese pensato per loro. Un paese che non è qui, ma in provincia di Pordenone, da qualche parte. Case nuove, fatte in fretta. Sulla carta funzionava bene, gente che non può più vivere qui, la spostiamo di là. Ma cosa significa avere una Casa? Un posto dove stare. Certo, se il fango ti porta via tutto (vita, foto, ricordi) è di quelle mura che hai bisogno, o forse “Casa” è dove piangi i tuoi morti e pensi ai tuoi vivi. Forse è dove sei nato, più probabilmente dove hai amato e non escluderei che possa essere dove hai odiato qualcuno. Credo che Casa è dove identifichi le tue radici, anche sotto il fango e i resti di chi non si è più trovato (e che speri irragionevolmente di trovare).
Oggi è festa, c’è un tendone e un’osteria aperta sulla piazza. Gente poca, ma forse è meglio. Stanno preparando la Madonna per l’Assunta. Suonano le campane. Suono secco, assoluto, nessun rumore le disperde, pochi le ascoltano. Muri di pietra, come orologi dalle lancette spezzate (quanti orologi fermi sulla stessa ora giù al cimitero). Vite di fango rimaste sotto l’onda, neanche il tempo di capire di essere nella bocca della montagna, che già sono dissolte. Ciuffi d’erba tra le fughe, qualche fiore su quei sepolcri vuoti, silenzio di passi. Vajont, ma lo dico basso. Eppure qualcuno è tornato, ha intonacato i muri, raddrizzato gli scuri con una meravigliosa testardaggine umana. Ogni mattina apre le imposte e si affaccia sulla montagna e non può dimenticare. E’ rimasta una ferita bianca sul pendio del Toc, una ferita che sembra un cuore tagliato a metà e non puoi non pensare ogni santo giorno a quello che è successo. E’ come infliggersi una penitenza, il cilicio per essere sopravvissuto (perché a volte morire sembra la sorte migliore, almeno per chi resta).
Potrei raccontare anche di Longarone, della brutta Longarone, quella che hanno ricostruito male, senza rispetto e senza spazio dove la gente potesse raccogliersi, incontrarsi e consolarsi. Hanno tolto i portici a quelle anime superstite, hanno ridotto le piazze e buttato cemento. Il cemento ha pagato i conti, diamo le case in brutta edilizia anni 60, diamo i negozi, poco importa se un paese è ben altro di fogli, mappali e subalterni. Quelli che erano qui, li spostiamo di là. E non ho voglia di parlare di quella bestemmia a cielo aperto che è la chiesa dedicata alle vittime, un oltraggio alla memoria, un orrore da abbattere.
Quello che posso dire, mentre bevo questo caffè, è che se vi capita di passare di qua, fate un salto anche al cimitero delle vittime, giù a valle. Duemila sono le storie che vi potrei raccontare, ma oggi parlo solo di memoria. Penso a quanti ricordi e racconti siano sepolti là sotto, ordinati per famiglia di appartenenza. Madri, nonne e figli (tanti putèi), perché molti uomini in età da lavoro erano via, gente veneta emigrata, magari con il moton, per trovare lavoro. Restavano le donne a crescere i figli, come la nonna che forse per questo abbassava la voce e rispettava il dolore; il rispetto di chi è scampato.
In loro memoria sono rimaste quasi duemila lapidi uguali tra loro, ben ordinate, e un monumento in marmo bianco, stupendo, dedicato a chi raccoglie i corpi dal fango, a chi consola e a tutte le mamme volate in cielo con i loro bambini, i “bambini mai nati del Vajont”.
Non hanno potuto scegliere dove essere sepolti. Allineati ed elencati per famiglia, come se questo fosse per forza segno di appartenenza. Una memoria sfregiata anche nella tumulazione forzosa, senza poter scegliere dove riposare in pace. Per molti questo forse non ha senso, ma la gente veneta lo sa, il culto dei morti è ancora radicato, gente che litiga una vita per decidere chi andrà in una tomba da morto. Ma non si può sottilizzare, quelli che erano qui, li mettiamo di là.
Il prossimo 9 ottobre saranno cinquant’anni da quella notte lunga quattro minuti. Molti si ricorderanno, molti di più si scorderanno del Vajont. Pochi, troppo pochi, capiranno cosa significa tenere in piedi quel muro di cemento e l’insegnamento che dobbiamo trarre da questa tragedia. Io confido in voi sviaggiatori e in chi fa del viaggiare un’esperienza di vita e d’amore e non una tacca da mostrare agli amici. Confido in voi, perché portiate rispetto alla memoria e alla vita. E se passate da queste parti, sedetevi a questo caffè, guardate il cuore spezzato davanti ai vostri occhi. Questa volta, il caffè sospeso lo lascio io, per voi.
© Laura Defendi, 2013
pubblicato il 24 settembre 2013 su Sdiario di Barbara Garlaschelli