Caffè Sospeso, pubblicato su Sdiario l’1 luglio 2014
Bagagli smarriti
Ogni tanto lo faccio. Venire qui intendo, guardare dalle vetrate i movimenti sulla pista. Mi fingo straniera, così che nessuno mi chieda nulla. Straniera in terra natia, così come accade ogni giorno, anche quando non è permesso o vorresti sentirti a casa.
Vengo qui e mi ripeto i motivi per restare e, mentre gli occhi contemplano i monitor, penso. Penso che se inizio a correre, riesco a fermare l’onboarding lampeggiante, riesco a essere l’ultima a salire, senza che per nessuno ci sia più possibilità di seguirmi. Invece resto, finché non sfila via un altro volo.
“Non Hic et Nunc” te lo ripeti dalla prima volta che hai studiato i romantici come cavie da laboratorio. Non qui, non ora, la tua geolocalizzazione è sempre stata fuori dalle mappe. Anche il gate per Boston è chiuso. Tocca reinventare una meta.
Mi siedo sulla panchina, una di quelle in cui se piangi sotto gli occhiali neri, la gente non ti nota o, più semplicemente, se ne frega. Essere ignorati inizia a essere un bene di lusso: nel dubbio preferiresti essere ignorata piuttosto che investita, ma nei dubbi non ci sai vivere.
A volte mi capita di sentirmi defraudata e arrabbiata, come se qualcuno avesse confuso i bagagli, come se mi avessero restituito una valigia identica nell’aspetto, ma sconosciuta nei contenuti e allora me ne sto sulla panchina dell’aeroporto e aspetto. Aspetto che qualcuno, meraviglioso come nei film, compaia dietro la colonna e, con sorriso americano, mi dica “signora, è questa la sua valigia”. Sì, sono figlia delle commediole filo americane degli anni ’80 con finale scontato e buonista in cui il male arriva solo per rendere più sexy il protagonista maschile. Fossi in voi ci penserei bene prima di farmi la pay tv.
Ma insomma, quanti sproloqui deve fare una povera non turista prima di essere invitata a prendere un caffè? Un caffè concreto, in una tazza vera, senza bicchiere di carta, che di sospesa ci sono già io.
© Laura Defendi